Nel confuso panorama enologico di Sicilia l’unica speranza sono i baroni. Il vino delle famiglie dell’alta nobiltà è evaporato: la Duca di Salaparuta è passata all’Amaretto di Saronno e il Feudo dei Principi di Butera è stato comprato da Zonin, per dire i due casi più melanconici. Avendo meno soldi da sperperare a Palermo e a Montecarlo, i baroni neanche ci sono andati, a Palermo e a Montecarlo. Nel corso del Novecento sciagurato (mafia, riforma agraria, bibite gassate, repubblica) molti di loro sono rimasti sulla terra, conservandone almeno un po’ per gli eredi. Non può essere un caso che i pochi vinisiciliani che ci interessano hanno tutti lo stesso tipo di coroncina in etichetta. Piacerebbe (eccome) parlare della baronessa Francesca Planeta di Santa Cecilia ma i giornalisti l’hanno già troppo viziata e poi se nelle cantine siciliane si stanno accumulando le barrique la colpa è un po’ anche sua. Piacerebbe parlare del barone Nicolò La Lumìa e del suo Signorio Rosso, prodigiosamente ricco di benefico resveratrolo, se non fosse che avendo battezzato questo 100 % Nero d’Avola con un nome di fantasia contribuisce in quota parte alla babele della Trinacria vinosa. Piacerebbe parlare di don Carlo Nicolosi barone di Villagrande ma il suo Sciara appunto di Villagrande contiene merlot come un Franciacorta qualsiasi. Piacerebbe parlare del barone Emanuele Scammacca del Murgo ma pur essendo riusciti a perdonare il suo coinvolgimento nel governo Dini (fu sottosegretario agli Affari esteri) ci risulta imposibile dimenticare che il suo Tenuta San Michele è stato definito “il Sassicaia etneo”, ohibò. Messo da parte il condizionale ci piace parlare del barone felice Modica di San Giovanni, uno che non è mai stato sottosegretario e non ha mai piantato merlot e che imbottiglia il suo vino denominato Filinona scrivendo Nero d’Avola bello grande in etichetta, così sio capisce che cosa c’è dentro. I vinattieri nostri sulle etichette ci scrivono qualsiasi cosa, meno quello che realmente conta: Vino dolce o secco? Fermo o frizzante? Monovitigno o miscuglio? Affinato in vetro, in acciaio, in legno o in legnetto? Per i vinattieri sono dati inessenziali: molto meglio stampare poesiole, chiacchiere, quisquilie e pinzillacchere, oltre che nomi indecifrabili che in icilia hanno spesso l’accento folk: Tané, Rapitalà, Ramì, Noàà, Nikà, Jalé, Chiarandà, Angimbé…Filinona, felice eccezione, non prevede né accento né barrique. In dialetto questa parola designa l’afoso pomeriggio estivo, ovvero la controra, e infatti quello di Modica è un rosso caldo, brancatiano, che lentamente ma lungamente effonde sentori di salvia e di sogno.